di Federica Cavadini
Una visita di due giorni. Con base a casa di amici a Città Studi, passaggi per il Duomo, per piazza Cinque Giornate, Porta Venezia. Spostamenti in tram e a piedi. A cena nel locale di Cracco dietro i Navigli e in una pizzeria di via Spartaco. Non ha visto Porta Nuova, fra nuovi grattacieli e un campo di grano come opera d’arte. Né ha messo piede ad Expo, dove conta di andare a settembre. Ma questo breve passaggio a Milano, in un Primo maggio con l’apertura dell’Esposizione e la devastazione dei black bloc, è diventato un articolo sul New York Times . «Fra i most emailed del giornale, e questo accade ogni volta che scrivo dell’Italia, un Paese che molti hanno nel cuore», dice. Roger Cohen, un londinese a New York come editorialista del quotidiano e negli anni Ottanta corrispondente dall’Italia per il Wall Street Journal , sostiene di essere colpito dalla Milano di oggi: «Aperta». «Internazionale». «Orgogliosa per l’Expo».Sulle colonne del New York Times però ha raccontato anche altro.
È sbarcato a Linate e...
«Non ci passavo da venticinque anni. Sceso dall’aereo per raggiungere il terminal ho ritrovato gli stessi vecchi bus navetta che prendevo allora. E le stesse code. Ho cercato di fare il biglietto per l’autobus ma la macchinetta dell’Atm era rotta. Volevo ritirare soldi ma la cassa automatica era fuori uso. Sono andato all’ufficio informazioni: deserto, non c’era nessuno. Mi ha sorpreso, con l’Expo appena iniziato e visitatori in arrivo da tutto il mondo. Ma il mio comunque non era un giudizio generale, negativo».
Ha commentato sul New York Times anche gli scontri del Primo Maggio. E la risposta immediata dei milanesi scesi in strada con spugne e sapone a ripulire, a riprendersi la città
.
«Ero in Liguria da amici quel pomeriggio. Ho seguito la diretta tv, ho visto l’assalto stupido, distruttivo di quelli che si fanno chiamare black bloc, ho visto le immagini del poliziotto colpito, delle auto incendiate. Nel mio articolo ho raccontato poi la reazione dei milanesi, mi ha colpito questo spirito civico, non so se a Roma o Napoli sarebbe successa la stessa cosa. D’altra parte Milano è diversa».
Diversa per...?
«È una città d’affari, è la parte ricca del Paese, che funziona meglio, anche se un minuto milanese non è un minuto newyorchese. D’altra parte, come nel resto del Paese anche a Milano ho trovato un tempo disteso. Le persone si guardano. Vai in farmacia oppure al ristorante e c’è sempre il tempo per “fare due chiacchiere”, come dite. È una dimensione che non trovo altrove, né a Londra né a New York».
Due giorni in città dopo molto tempo. Come la ricordava e come l’ha trovata?
«Milano è per me una città nascosta, misteriosa, da scoprire. Così diversa da Parigi e Londra dove è il fiume ad orientare. Mi piaceva allora, mi è piaciuta oggi. Non c’è la bellezza di Roma ma è gradevole camminare per i quartieri. Una mattina sono andato a piedi da Porta Venezia a Città Studi. Ho preso il tram (ho notato che il biglietto costa molto meno che a Londra), ho visto nelle strade le bici gialle del bike sharing e le auto in condivisione e ho ritrovato ancora botteghe artigiane. E mi sono guardato intorno, ho osservato la gente: ho visto più diversità».
Spieghi.
«Il mio ricordo è degli anni Ottanta, quando vivevo e lavoravo in Italia come corrispondente e seguivo le inchieste, dal Banco Ambrosiano a Tangentopoli. La città adesso è più aperta, internazionale. La gente è diversa e lo è anche l’aria che si respira. ».
Ma sull’efficienza, come ha scritto sul New York Times, ancora non ci siamo.
«Avete una relazione ambigua con la tecnologia e la modernità. In Italia spesso le cose non cambiano. Ma questa resistenza al nuovo non è un aspetto negativo. Per esempio ho trovato interessante il ristorante Carlo e Camillo in Segheria (di Carlo Cracco) con quella lunga tavolata in un loft in stile newyorchese, qualcosa di nuovo per Milano. Ma ho apprezzato anche la pizza da Snuppi di via Spartaco, una trattoria a conduzione familiare, che sta lì da quarant’anni».
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