Il Consiglio di Stato è il massimo organo giurisdizionale sui provvedimenti delle pubbliche amministrazioni, sia centrali che locali. Dunque decide anche se gli atti dei ministri e del governo sono legittimi. È insomma il controllore del potere esecutivo. Dai suoi giudizi dipende in buona misura la tenuta delle riforme del governo. Per questo motivo la nomina del presidente è un atto molto sensibile. La prassi ha tradizionalmente considerato il ruolo del governo in questa scelta meramente formale. Nella sostanza, i governi hanno sempre ratificato la proposta del Consiglio di presidenza dei giudici amministrativi (l’equivalente del Csm), che indicava il giudice più anziano. L’automatismo era considerato garanzia di autonomia e indipendenza.
Il governo Renzi ha rotto la prassi, esercitando il suo potere fino in fondo e in modo discrezionale. Anziché l’indicazione di un nome, ha chiesto al Consiglio di presidenza una cinquina. Il Consiglio di presidenza ha indicato al primo posto Stefano Baccarini, il più anziano tra i giudici in carica. Quarant’anni di servizio, mai un incarico extragiudiziario, prossimo alla pensione.
Ma il governo non lo ha nominato, pescando invece il secondo della cinquina, Alessandro Pajno. Un altro giudice pacificamente considerato autorevole e competente, nonché di lunga esperienza e con un orizzonte più lungo prima della pensione, ma con un profilo diverso. Ha ricoperto ruoli importanti negli staff ministeriali e a Palazzo Chigi (con Prodi nel 1996), è stato sottosegretario agli Interni nel secondo governo Prodi (2008).
Baccarini ha reagito annunciando le dimissioni in una lettera molto dura circolata nella mailing list interna dei giudici, nella quale attribuisce il suo scavalcamento a una manovra politica.
Le sue parole hanno aperto tra i magistrati un dibattito. C’è chi ha ricordato le frequenti parole del premier contro i giudici amministrativi. E chi ha evocato il precedente di nomina direttamente governativa del presidente del Consiglio di Stato che risale al 1928. Ne fu vittima il consigliere anziano Carlo Schanzer, il quale lasciò testimonianza in un manoscritto intitolato «Storia della mia nomina e snomina a Presidente del Consiglio di Stato». Convocato al Viminale certo della investitura, fu accolto da Mussolini che gli spiegò di non ritenerlo «la persona meglio indicata» per l’esigenza di «maggiormente fascistizzare alcune alte cariche dello Stato».
Anche allora caratura e personalità del nominato, Santi Romano, erano fuori discussione. E anche allora lo scavalcato Schanzer si dimise.
Paragoni storici a parte, e posto che il governo non ha violato la legge, la questione è assai delicata. E nei forum dei giudici viene sollevata in questi termini. È compatibile con il principio costituzionale dell’indipendenza dei giudici la nomina governativa? È ragionevole che il presidente del Consiglio di Stato, organo che giudica sugli atti del governo, sia «meno indipendente» dal governo rispetto ai giudici ordinari, tutelati dai più ampi poteri del Csm? I giudici del Consiglio di Stato che sperano di concorrere in futuro alla presidenza saranno indotti a comportamenti compiacenti? Si delineerà una «giurisprudenza filogovernativa» nella magistratura amministrativa?
La questione non è accademica. Nelle prossime settimane la nomina del presidente aggiunto potrebbe allargarla. In questo caso, lo scavalcato potrebbe essere Sergio Santoro, autore della controversa decisione che ha messo in discussione il pensionamento anticipato dei giudici voluto dallo stesso governo Renzi. Se Baccarini ha protestato solo con i suoi pari, attraverso le dimissioni e la lettera, Santoro potrebbe giocare la carta del ricorso al Tar, sollevando la questione fino alla Corte costituzionale.
E che cosa accadrà quando si dovrà nominare il presidente della Corte dei Conti, altro organo «controllore» del governo?
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