Saturday Tales, le storie del sabato: Michael vinse il suo primo titolo alla settima stagione. Oggi sembra impossibile, ma in molti credevano che non ce l'avrebbe fatta mai: bollato come un egoista perdente. Fino al riscatto
di Valerio Clari
“Nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Trentasei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l'ho sbagliato. Nella vita ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”. La frase, ormai un classico del filone motivazionale, è di Michael Jeffrey “Air” Jordan, il più grande giocatore di basket che abbia mai calcato i parquet di questo pianeta. La frase, concepita per uno dei tanti spot Nike che hanno cavalcato e amplificato la sua leggenda, arrivava dopo. Dopo le vittorie, dopo la consacrazione, quando ormai anche gli ultimi “miscredenti” erano stati zittiti. Prima, prima del primo titolo datato 1991, difficilmente MJ avrebbe posto l’accento sui suoi errori. Perché c’era già una buona schiera di commentatori, addetti ai lavori, avversari, persino tifosi che lo faceva per lui.
Già, c’è stato un tempo in cui Jordan era considerato un perdente: “Egoista”, “Non vincerà mai un titolo”, “Non è uomo squadra come Magic o Bird”, “Se segni tanto, la tua squadra non vince il titolo”. Non erano pochi. Non erano i soliti “haters” controcorrente. Non è durata poco. Sette anni. Perché Michael si è preso l’anello alla fine della sua settima stagione Nba. Per andare all’All Star Game ci aveva messo quattro mesi. Per avere una linea di scarpe dedicata (la prima in assoluto in Nba), una stagione. Per riempire le arene di tutta America, quando arrivavano i suoi Bulls , poche settimane. Ma quello non conta. Conta vincere. E se non lo fai sei un perdente. Logica discutibile, ma molto in voga.
Jordan approda ai Bulls, con l’ormai celeberrimo draft del 1984, dopo tre anni a North Carolina. All’Università ha trionfato al primo colpo, con un tiro sulla sirena. Ma aveva un ruolo di comprimario, e quando diventa la stella non arriva in fondo al torneo Ncaa. A Chicago trova una squadra perdente, una franchigia dal valore limitato che il suo “avvento” cambierà per sempre. Al primo anno va ai playoff, con più perse che vinte: il rookie dell’anno esce subito, con Milwaukee. La squadra è quella che è. Alla terza gara della sua seconda stagione si rompe un osso del piede sinistro: lungo stop. I Bulls vorrebbero saltasse tutta la stagione, un po’ per preservarlo un po’ perché scegliere alto, al draft, e affiancargli un altro giovane di qualità non dispiacerebbe. Ma Mike di stare a guardare non ha voglia: a marzo, dopo che da un mese si allena da solo in North Carolina, si presenta dai dirigenti e dice: “Io gioco”. Si tratta, l’accordo arriva per un impiego limitato a 14-15 minuti a partita (non reggerà). Con lui i Bulls vincono 6 delle ultime 9, vanno ai playoff nonostante un record di 30-52, escono subito, coi Celtics. Al Boston Garden fa 63 punti, Bird conia la famosa frase “Quello era Dio travestito da Jordan”, ma lo fa dopo aver vinto. L’anno dopo, stessa storia, sempre Bird e compagnia, sempre saluti senza vincere nemmeno una gara di playoff. Michael è già una macchina da soldi, da highlights e da canestri (anche in difesa andiamo decisamente bene, eh), però le critiche piovono. “Gioca da solo”. Vero in parte, perché le spalle all’altezza arriveranno solo dal 1987, con Pippen e Grant. “Non si fida dei compagni”. Vero totalmente, e sarà un problema anche negli anni successivi.
La quarta stagione è la prima che i Bulls jordaniani chiudono con un record in attivo. E’ anche la prima in cui passano una serie dei playoff. Ma soprattutto è la prima in cui le strade dei Tori incrociano quelle dei Bad Boys, i Detroit Pistons. Nascerà una rivalità che ha fatto la storia dell’Nba Anni 80. Dire che Michael e Isiah Thomas non si amano è riduttivo: al primo All Star Game di MJ, il play ha capeggiato una fronda di veterani che non passavano la palla al ragazzino “troppo pompato”. Jordan, che è uno che si lega tutto al dito, lo mette nel suo personale libro nero. Quando potrà mettere il veto su Thomas per il Dream Team del 1992, (l’originale e l’unico) lo farà, eccome. Ma Detroit è anche una squadra fortissima: ha tre futuri Hall of Famer (Thomas, Joe Dumars e Adrian Dantley), Dennis Rodman, Bill Laimbeer, John Salley, Vinnie Johnson. Gente dura, che mena e che difende. Le partite sono battaglie, Chuck Daily vara le “Jordan Rules”, regole difensive che prevedono non solo una marcatura asfissiante anche senza palla, ma aiuti costanti quando “His Airness” ha la palla. Di solito sono in tre che chiudono la penetrazione, e a volte un quarto difende il ferro. Si staccano tutti dai propri uomini, in un modo che oggi non sarebbe legale (3 secondi difensivi): tanto Jordan non la scarica mai, nei momenti decisivi. O la scarica poco. In più menano, e intimidiscono. I Bulls escono due volte di fila, con Doug Collins in panchina. Jordan schiuma di rabbia, accusa tutti e si becca del “perdente” da mezza America.
Nell’estate del 1989 sulla panchina di Chicago arriva Phil Jackson, con la sua “triangle offense”: da subito parla con Jordan, e cerca di convincerlo che il supporting cast è all’altezza, e che delegare e fidarsi e l’unica via alla vittoria. Jordan è inizialmente titubante sul nuovo sistema di gioco: “Proviamo il triangolo, ma non funzionerà. Se vinciamo, tutto bene. Ma appena cominciamo a perdere, io tiro”. Arrivano in finale a Est, contro i Pistons. Arrivano a gara 7: 93-74 per quelli della città dei Motori, che allora rombavano ignari della crisi che li avrebbe travolti. Jordan è sconfitto, criticato e frustrato. A fine gara gli spogliatoi Nba parlano: quello dei Bulls racconta di una sedia spaccata dal numero 23, che se la prende senza mezze misure con i compagni, che a suo dire non si impegnano abbastanza. Il Maestro Zen ha un bel lavoro da fare, in estate. Ma l’allenatore non è malaccio, vincerà “qualche titolo” in seguito.
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