giovedì 7 maggio 2015

RAZ DEGAN: volevo parlare di SIGNORAGGIO ma i media sono pieni di stronzate

 di Enrica Brocardo

Nel 2011, in un’intervista su Vanity Fair, Raz Degan aveva detto: «Tra qualche settimana sparisco ». Quasi quattro anni dopo, ricompare alle mie spalle nel bar di un hotel di Francoforte, tutto sudato. Ha appena fatto una sauna per «staccare » dal montaggio del suo primo documentario. Parla perlopiù in inglese. «Sono via da così tante settimane che non mi viene più da usare l’italiano», dice. In Italia però sta per tornare, a promuovere un altro documentario, Il figlio di Hamas - The Green Prince di Nadav Schirman (vincitore del Premio del pubblico al Sundance Film Festival, e in uscita da noi il 23 aprile), al quale ha lavorato come direttore della fotografia.
Il film racconta la storia vera di Mosab Hassan Yousef e Gonen Ben Yitzhak. Ovvero, del figlio di un leader di Hamas diventato informatore dell’intelligence israeliana durante l’Intifada e del suo referente all’interno dei servizi segreti.
Due nemici «naturali» che si scoprono alleati. Ora Nadav Schirman è diventato il produttore del documentario di Raz che, se tutto va bene, dovrebbe uscire entro il 2015.
«Ci sto lavorando da tre anni e mezzo. È la storia di un giovane americano, studente di Harvard, famiglia ricca, che cade in depressione e che parte per l’Amazzonia».
Raz Degan lo ha seguito ovunque con la telecamera. Il risultato, spiega, è una storia universale di risveglio, il punto sulla nostra condizione di esseri umani.

Torniamo un attimo alla sua sparizione quattro anni fa? «La mia carriera andava piuttosto bene, facevo cinema, Tv. Ma mi mancava un perché. Ho cominciato a fare ricerche, a interessarmi alla vita in maniera più profonda. Avrei voluto condividere con il pubblico televisivo quello che avevo imparato, ma i tempi della Tv sono troppo rapidi. Non riuscivo a esprimermi». Sta parlando di Mistero? Il programma del 2011? 

«Credevo che usando la mia popolarità avrei potuto trattare temi importanti, molto più grandi di me, come i messaggi subliminali, il signoraggio (il reddito che gli Stati guadagnano dall’emissione di denaro, ndr). Ma i media sono controllati, pieni di stronzate. Viviamo in una dittatura: controllano quanti soldi puoi prendere in banca, dove puoi viaggiare. Poi ti danno un telecomando per farti credere che sei libero solo perché puoi scegliere quale canale guardare». 

Non si offenda, ma lei dentro quella Tv c’è stato a lungo
.

«Infatti. È per quello che posso parlare. Non dico che trasmettano solo merda, ma bisogna saper filtrare. Comunque, io la televisione non l’ho mai accesa, neppure quando la facevo. Preferisco guardare i miei pomodori crescere nell’orto. Quando ho rilasciato quell’intervista a Vanity Fair, avevo raggiunto la consapevolezza che viviamo una pantomima, e che continuare a fare le stesse cose era una perdita di tempo».

Da israeliano, qual è il suo punto di vista su una storia come quella raccontata nel Figlio di Hamas?

«Ho avuto la fortuna di essere nato molto prima dell’Intifada, e di essere cresciuto in un kibbutz (una comune, ndr) di sinistra. Non c’era odio nei confronti degli arabi. Immagini di stare in un campeggio: nessuno chiudeva la porta di casa, tutto era in comune, ogni donna era come una mamma, potevi entrare in casa di chiunque, giocare dove ti pareva, non eri mai solo, non avevi paura».

Che tipi erano i suoi genitori?

«Mia madre è americana. Siccome faceva l’infermiera, era andata in Israele durante la guerra del ’67 per dare una mano. Mio padre era un militare. Si sono incontrati per un attimo. Sono nato per sbaglio».


L'intervista completa sul numero 16 di Vanity Fair in edicola da mercoledì 22 aprile 2015.

http://www.vanityfair.it/people/mondo/15/04/25/raz-degan-che-cosa-fa-oggi-intervista-paola-barale-foto

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