Cari lettori di Altro Giornale, per chi di voi è interessato al “Cristo Storico”, dopo “Gli Apostoli non sono esistiti”, intendo sottoporre un secondo studio comparato fra i vangeli e la storia al fine di accertare la reale esistenza di san Paolo, l’apostolo principale diffusore, nelle Province dell’Impero Romano, della teologia cristiana e le regole in essa contemplate, riferite soprattutto nelle “lettere” a lui attribuite
Su di lui non esiste alcuna testimonianza scritta extracristiana e tanto meno archeologica che ne documenti la vita e le opere; le uniche fonti sono esclusivamente religiose delle quali la più importante e ricca di riferimenti biografici è “Atti degli Apostoli”, la cui redazione, secondo la tradizione fideista, viene accreditata a san Luca.
I Padri fondatori del Credo cristiano si prefissero di comprovare l’esistenza dei protagonisti evangelici facendoli operare in un contesto storico in cui erano presenti notori alti funzionari imperiali descritti dagli storici dell’epoca. Sta a noi verificare l’autenticità di tali gesta avvalendoci della ricerca sui quei documenti ad oggi pervenuti dal lontano passato.
Lo studio è “Paolo di Tarso: un super apostolo inventato. Ecco le prove”
I Parte: sintesi
San Paolo, come san Pietro, nei sacri testi cristiani vengono descritti dotati di poteri divini miracolistici straordinari e, nel caso di Paolo, addirittura superiori a Gesù. Risucitava anch’egli i morti ma poteva guarire chiunque affetto da ogni male, pur senza essere presente di persona, con una sorta di “tele-miracolo” in grazia di un brevetto esclusivo rilasciato per volontà divina:
“Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano” (At 19,12).
Sono personaggi di cui si narra esclusivamente nei Vangeli o negli scritti apologisti dei Padri fondatori del Cristianesimo; cioè una dottrina creata per fare adepti grazie all’illusione della vita eterna ed alla resurrezione del proprio corpo dopo la morte. La domanda da porsi è se san Saulo Paolo sia esistito veramente oppure, come per gli altri Apostoli, verificare se questi personaggi non siano piuttosto rappresentanti ideologici di una dottrina che, obbligatoriamente, doveva essere “incarnata” in uomini prescelti e ispirati da Dio. Un non credente, che si accinge a leggere di questo san Saulo Paolo senza essere condizionato da prediche confessionali, percepisce subito che la trovata “geniale”, di san Luca, intesa a far creare un altro Apostolo dallo stesso Gesù Cristo “post mortem”, è un contro senso assurdo sia storicamente, come intendiamo dimostrare, sia teologicamente, in quanto palesemente finalizzata a revisionare la dottrina precedente.
Un Dio che, per riscattare l’umanità dal peccato, si fa uomo e come tale si sottopone ad una passione di sangue ed estrema sofferenza, dopo aver predicato, istruito e scelto dodici “Apostoli” con un preciso mandato, una volta salito in cielo, si accorge di aver dimenticato “qualcosa d’importante”, allora scaraventa una folgore (a imitazione di Giove) su un certo Saulo Paolo, accecandolo, e con la “Voce” nomina un altro Apostolo con l’incarico di “aggiornare” la dottrina degli altri suoi “colleghi” che Lui stesso aveva appena istruiti, è una logica che può stare in piedi solo previo millenario lavaggio del cervello.
Nominati i dodici Apostoli …
“Gesù li inviò dopo averli così istruiti: «non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani, rivolgetevi, piuttosto, alle pecore perdute della casa d’Israele»” (Mt.10,5-6).
Questo “comandamento” nazionalista, conforme alla missione di Gesù limitata alla sua Patria (nulla avrebbe potuto impedire a Cristo di predicare ovunque volesse), andava cambiato, ma la modifica di una dottrina non poteva risultare dipesa da una esigenza umana, pertanto, bisognava “dimostrare” che fu la stessa divinità a “rivelarsi” attraverso un altro super “Apostolo”, strumento della Sua Rivelazione e depositario della nuova “verità” da divulgare fra i Gentili pagani. Fu semplicissimo: bastò inventare “Saulo Paolo” e fargli scrivere alcune lettere per testimoniare su se stesso e sul nuovo credo del “sacrificio del Figlio di Dio e la sua resurrezione per la salvezza della vita eterna degli uomini” dimostrando, così, che il nuovo Apostolo era esistito veramente.
“« Il vangelo da me annunziato non è opera d’uomo; perché io stesso non l’ho ricevuto né imparato da un uomo, ma l’ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo »” (Lettera ai Galati 1,11).
L’esigenza di una seconda “Rivelazione” di Gesù portò a redigere degli appositi manoscritti, successivi a Vangeli primitivi, poi distrutti, allo scopo di ufficializzare un apostolato promotore della diffusione di una dottrina, evolutasi da quella originale, e creare, artatamente, un nesso ideologico per farla apparire coerente sin dall’inizio. I Vangeli che noi leggiamo non sono i primi: san Saulo Paolo è venuto dopo; come gli “Atti degli Apostoli”.
Eusebio di Cesarea, Vescovo cristiano sotto Costantino, dal IV secolo, denuncia la pubblicazione di un altro “Atti degli Apostoli”, che taccia come eretico (HEc. I 9,3-4). Di tale documento non ci è pervenuta traccia ma è evidente che fu eliminato assieme ad altri per cancellare gli insanabili contrasti, con quello fattoci pervenire, che avrebbero palesato il fine della sua artificiosa redazione.
San Saulo Paolo, stiamo per provarlo con l’aiuto della storia, come persona non è mai esistito: fu soltanto un’ideologia, “incarnata” in un uomo “discepolo apostolo di Gesù”, resasi necessaria perché rappresentava la soluzione politica religiosa per quella parte di ebrei della diaspora la cui esistenza, nelle Province dell’Impero Romano, era diventata difficile in quanto seguaci di una fede nazionalista integralista che imponeva loro di non sottomettersi ad alcuna dottrina, o “Padrone”, o “Signore”, se non al proprio Dio: “Yahwè”. Un’ideologia imposta dall’evoluzione politica e militare che vide sconfitti, atrocemente, i patrioti yahwisti con oltre un milione di morti nelle guerre contro Tito e Adriano, di conseguenza voluta da una corrente religiosa ebraica che decise di revisionare il messianismo zelota, sulla base di una logica opportunista adeguata alla realtà dell’epoca, rivedendo le profezie messianiche della Legge ancestrale e aprendosi, infine, ai culti pagani della “salvezza” oltre la morte, grazie alla resurrezione del corpo.
Nel I secolo le sette ebraiche, ufficialmente riconosciute, credevano solo nell’immortalità dell’anima e non nella “resurrezione della carne”, e fra esse, i Sadducei non confidavano neppure in quella. Per questo fondamentale motivo ideologico, gli “Atti degli Apostoli” e gli stessi Vangeli, riadattati in tal senso successivamente, divengono un vero e proprio atto di accusa contro il popolo ebraico. Pietro e Paolo emettono continue sentenze di condanna contro gli Ebrei, contro il Sinedrio e contro le Sinagoghe, scagliando vere e proprie maledizioni nei confronti dei Giudei facendo ricadere su di essi, sui loro figli e le generazioni future, il “sangue di Gesù” da essi fatto versare.
Ma ora mettiamo da parte l’escatologia e sottoponiamo ad una verifica storica le vicende che vedono coinvolto, come uomo, san Saulo Paolo, ovvero “l’Apostolo delle Genti”. L’evangelista lo fece nascere a Tarso in Cilicia (At. 22,3), poi lo spedì a predicare, senza sosta, da una città all’altra dell’Impero. Nel 58 d.C. giunse a Gerusalemme – la datazione è precisa e ricavabile in “Atti” (At 24,27) ove si attesta che “trascorsi due anni Felice ebbe come successore Porcio Festo” : infatti il passaggio di consegne fra i due Procuratori avvenne nel 60 d.C.- In quell’anno (58), dopo aver offeso il Sommo Sacerdote Ananìa all’interno del Sinedrio, secondo la sceneggiatura di san Luca, per impedire che i Giudei “lo togliessero di mezzo, non facendolo più vivere” (At 22,22), dichiara al Tribuno romano: “io sono un cittadino romano di nascita” (At 22,27-28).
Luca ci sta propinando che, nel I secolo, in Giudea, se un cittadino veniva accusato dal Sinedrio di Gerusalemme di aver violato la Legge ebraica e offeso il Pontefice, per evitare la lapidazione bastava mentisse spudoratamente, come fa Paolo, sul suo luogo di nascita, dichiarando di essere un “cittadino romano”, e tutti erano tenuti a credergli sulla parola, anzi, dovevano spaventarsi; addirittura un Tribuno romano doveva tremare: “anche il Tribuno ebbe paura, rendendosi conto che Paolo era cittadino romano” (At 22,29).
Ma il ridicolo diventa farsa per la dichiarazione opposta resa, poco prima, allo stesso Tribuno: “Io sono un Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza” (At 21,39), riconfermata, subito dopo, davanti alla folla di Gerusalemme ed in presenza, ancora, dello stesso Tribuno: “Io sono un Giudeo nato a Tarso in Cilicia” (At 22,3). Peraltro il funzionario romano, poco prima, aveva sospettato che Paolo fosse l’Egiziano, il capo di una ribellione appena scongiurata dal Procuratore Antonio Felice (At 21,38). E’ evidente che l’evangelista, quando scrisse queste contraddizioni stupide, era convinto che anche i Tribuni romani erano degli stupidi, così pure coloro che le avrebbero lette in futuro.
Un vero Tribuno, obbligato a conoscere le leggi imperiali per poterle far rispettare, era consapevole che il Sommo Sacerdote del Tempio, che presiedeva il Sinedrio, era stato insignito da un Procuratore o un Re voluto da Roma, pertanto, chiunque avesse offeso il Pontefice, si sarebbe messo contro Roma, pagandone le conseguenze: il Procuratore aveva il diritto di uccidere … Secondo l’insulsa interpretazione del “diritto romano”, descritta in “Atti degli Apostoli”, in Giudea, tutti i trasgressori della “Legge degli antichi padri”, anche i peregrini stranieri, era sufficiente dicessero “sono un cittadino romano di nascita” e le autorità, in perfetta buona fede, anziché lapidarli, gli avrebbero messo a disposizione una nave trireme per inviarli a Roma dove avrebbero trovato Nerone che li attendeva per giudicarli; perché è al “Principe” dell’Impero che le massime autorità, preoccupate della “cittadinanza romana” del Santo, invieranno Paolo.
E’ così che ce la racconta Luca. E’ il “diritto di mentire” a un Tribuno (Comandante del presidio romano di Gerusalemme) sul proprio luogo di nascita e sulla “cittadinanza”, palesato da Paolo nella recita inventata dall’evangelista, che dimostra la fantasiosa, puerile, dabbenàggine dell’autore, il quale, ormai incapace di contenersi, degrada l’elevato ufficiale romano ad un “subalterno” del super Apostolo:
“Il Tribuno fece chiamare due centurioni e disse: “Preparate duecento soldati, settanta cavalieri e duecento lancieri perché Paolo sia condotto a Cesarea sano e salvo dal Governatore Felice” (At 23,23).
Ma questa paradossale scena si scontra con ben altra realtà. Tacito, (Annali XIII 34):
“Al principio dell’anno (58 d.C.) si riaccese violenta la guerra, iniziata in sordina e trascinata fino allora, tra Parti e Romani per il possesso dell’Armenia”.
Giuseppe Flavio, (Ant. XX 173), Guerra fra i Giudei e i Siri:
“Quando Felice si accorse che la contesa aveva preso forma di una guerra, intervenne invitando i Giudei a desistere”.
In una situazione simile, allorquando tutte le forze d’Oriente dell’Impero dovevano rendersi disponibili per fronteggiare una guerra contro i Parti, mentre è in corso una guerra civile fra Giudei e Siri … un Tribuno imperiale impiega una forza militare di pronto intervento, di quella portata, per scortare san Paolo, dopo che gli aveva mentito sul suo luogo di nascita e col dubbio, da lui stesso dichiarato, che potesse essere un capo ribelle come “l’Egiziano” (At. 21,38), un Profeta ebreo alla testa di migliaia di ribelli zeloti intenzionati a liberare Gerusalemme dalla dominazione romana. La sua azione fu anticipata e sgominata dall’intervento della cavalleria di Antonio Felice, ciononostante l’Egiziano riuscì a dileguarsi evitando la cattura. (Ant. XX 167-172).
La persona che godeva della “cittadinanza romana” era sottoposta alla legge romana, la quale, fra le varie possibilità di rilasciare (nel I secolo) questo privilegio, ne contemplava il diritto a tutti i cittadini nati a Roma: diritto che Luca “accreditò” a san Paolo. Ma non è plausibile che i Romani, nel I secolo, potessero concedere questo “diritto”, con sciocca leggerezza, senza alcuna possibilità di riscontro (modalità che stiamo per verificare), proprio perché avrebbero leso il diritto stesso, ma quello vero, vanificandolo. Eppure tale assurdità, contenuta negli “Atti degli Apostoli” (che avrebbe fatto chiudere il Sinedrio, impossibilitato a procedere per non competenza giuridica in quanto chiunque si sarebbe avvalso di quel “diritto” mentendo), è ancora oggi sottoscritta da alcuni storici ispirati i quali sanno perfettamente che a salvarli dal ridicolo è solo l’ignoranza della gente sul contenuto di questo “Sacro Testo”.
Nel I secolo a.C. la cittadinanza romana venne estesa agli alleati Italici e l’Imperatore, con un editto, aveva il potere di concedere agli abitanti delle Province questo onore che comportava vari benefici fra cui l’impedimento ad essere sottoposti, nei processi, a giurie non romane: tale privilegio rimase in vigore sino al 212 d.C. Ma nel I secolo (come sopra accertato l’episodio di san Paolo è stato ambientato – Atti 24, 27 – nel 58 d.C.), gli Imperatori, secondo quanto riportato da Svetonio in (Caligola 38), rilasciavano veri e propri “Diplomi di Cittadinanza”, cioè attestati ufficiali che comprovavano il diritto a tale prerogativa ed era fatto assoluto divieto appropriarsi di questo privilegio al punto che “coloro che usurpavano il diritto di cittadinanza romana, (Claudio) li fece decapitare sul campo Esquilino” (Cla. 25).
Da quanto documentato, l’assoluzione di san Paolo, riferita da lui stesso nella sua II^ lettera a Timoteo (IV, 17), è puerile e falsa.
Nell’episodio appena letto è importante rilevare, anche, il grave anacronismo concernente la datazione del sacro uffizio del Pontefice Ananìa (insultato da Paolo) il quale, come sopra evidenziato in “Atti degli Apostoli”, risulta in carica nel 58 d.C. … e, precisiamo, il Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme, per l’ecumene ebraica residente nell’Impero Romano e nel Regno dei Parti, era l’equivalente del Papa odierno per i Cattolici. A seguito gravi disordini fra Giudei e Samaritani, il Sommo Sacerdote Ananìa, figlio di Nebedeo, insieme ad Anano, Capitano delle Guardie del Tempio, fu arrestato e inviato in catene a Roma, nel 52 d.C., dal Legato di Siria Ummidio Durmio Quadrato (vedi Antichità Giudaiche XX 131), per rendere conto all’Imperatore Claudio di quelle vicende (cfr. Tacito Ann. XII 54).
Dalla lettura di “Antichità” e “La Guerra Giudaica” sappiamo che, dopo di lui, a presiedere il Sinedrio, si succederanno, fra il 52 e l’inizio del 66 d.C., i Sommi Sacerdoti: Gionata, figlio di Anano; Ismaele, figlio di Fabi; Giuseppe, detto Kabi, figlio di Simone; Anano, figlio di Anano (per soli tre mesi); Gesù, figlio di Damneo; Gesù, figlio di Gamalièle; e Mattia, figlio di Teofilo … “sotto il quale ebbe inizio la guerra dei Giudei contro i Romani”, nel 66 d.C. (Ant. XX, 223). Pertanto, nella scenetta inventata da San Luca, il litigio di Paolo Saulo che offende Ananìa chiamandolo “muro imbiancato”, per poi ritrattare:
«Non sapevo che è il Sommo Sacerdote; sta scritto infatti: Non insulterai il capo del tuo popolo» (At. 23, 5)
…collocato nel 58 d.C. si dimostra una frottola. Avrebbe avuto un senso (un errore in meno fra i tanti) se fosse avvenuto con Ismaele, figlio di Fabi, nominato Pontefice dal Re Agrippa II quando Antonio Felice era ancora Procuratore, dopo che questi aveva fatto uccidere il Sommo Sacerdote Gionata fratello di Anano. Una volta sfuggito di mano ai Procuratori di Roma il controllo politico della situazione, Ananìa sarà rieletto Sommo Sacerdote nel 66 d.C. e verrà ucciso, poco dopo, dall’ultimo dei figli di Giuda il Galileo (figli con i nomi dei fratelli di “Gesù”) il quale, a sua volta, sarà ucciso da Eleazar, Comandante delle Guardie del Tempio e figlio dello stesso Ananìa, per vendicare la morte di suo padre.
Da quanto esposto, la cronologia degli avvenimenti e delle investiture dei Pontefici non ammette il “battibecco” intercorso, nel 58 d.C., fra san Paolo e il Sommo Sacerdote del Sinedrio, Ananìa, già arrestato da un Luogotenente di Claudio (anche se, per intercessione del Sommo Sacerdote Gionata, poi sarà liberato; ma Gionata, a sua volta, verrà fatto uccidere da Felice), come dimostra la sequenza, ordinata nel tempo, dei designati a ricoprire l’importante ufficio. Infatti, con simile fedina penale, pur se appoggiato da una fazione politicamente importante, nessun Procuratore – gerarchicamente inferiore ad un Luogotenente dell’Imperatore, come Ummidio Durmio Quadrato, in carica in Siria sino al 60 d.C., prima sotto Claudio poi sotto Nerone (Annali XIV 26) – e vincolato da precisi passaggi di consegne, avrebbe più potuto confermare Ananìa “Sommo Sacerdote” del Tempio e del Sinedrio, neanche se proposto da Re Agrippa II, fino alla rivolta contro i Romani, essendo le nomine dei Pontefici sottoposte al “placet” dei Procuratori, a loro volta subordinati ai Legati imperiali di stanza ad Antiochia in Siria.
A conclusione di questa prima analisi su san Paolo, come uomo veramente esistito, uno storico deve constatare che a nessun suddito dell’Impero sarebbe stato possibile agire, in modo così plateale, contro le leggi di Roma senza pagarne lo scotto immediato. Un vero Tribuno romano, adempiendo al suo dovere, avrebbe messo subito in catene Saulo Paolo, mentre Antonio Felice, agendo da accusatore e giudice, lo avrebbe decapitato dopo un processo sommario: come previsto dalla legge. Il battibecco intercorso fra un qualsiasi ebreo, o ex ebreo, ed un Sommo Sacerdote del Tempio dimostra che il redattore di questa farsa, composta in un periodo storico successivo, non sapeva o non riconosceva l’autorità, né il potere detenuto da chi ricopriva tale sacro uffizio. Potere sottoposto soltanto all’autorità dei Legati romani o Regnanti, designati direttamente dall’Imperatore. Anche questo “Atto del Sinedrio”, come quello riferito nel primo studio riguardante il discorso di Gamalièle e riportato in “Atti degli Apostoli”, è un inganno conclamato, falso come il personaggio “san Paolo”: incarnazione umana della dottrina, a lui “rivelata” da un “Gesù” dall’alto dei cieli, che i fedeli cristiani seguono tutt’oggi.
Paolo di Tarso
Parte II: Sintesi.
Grazie al metodo storiologico che ci siamo prefissi di seguire, al fine di accertare verità o falsificazioni attraverso la comparazione degli scritti neotestamentari con la storiografia dell’epoca, possiamo dimostrare che san Paolo fu un personaggio inventato ancora prima di essere trasformato in apostolo “folgorato” dallo stesso “Gesù” già risalito in cielo. E’ un criterio razionale da cui non si può prescindere, al quale ci siamo sempre attenuti, ed è l’unico che ci permette di conoscere le origini del Cristianesimo. Secondo i falsari redattori di questo documento, gli “Atti degli Apostoli” avrebbero dovuto “testimoniare” la diffusione del messaggio teologico cristiano della “salvezza”, a partire da Gerusalemme sino a travalicare gli estremi confini dell’Impero Romano.
Per “dimostrare” come ciò poté avvenire in un lasso temporale di appena un trentennio, dalla morte di Cristo alla venuta di Paolo a Roma, oltre agli Apostoli furono inventati anche altri protagonisti dotati di poteri taumaturgici straordinari col compito di strabiliare le folle da convertire alla nuova religione. Secondo gli esegeti credenti nella “tradizione cristiana” l’opera fu composta intorno agli anni 80 d.C., ma la datazione tiene conto di riferimenti storici conseguenti alla descrizione di personaggi famosi realmente esistiti e appositamente riportati da chi compilò il testo. Sono conclusioni fideiste completamente errate, nonché scorrette sotto il profilo deontologico professionale, e noi ci apprestiamo a provarlo documentandoci su quanto sia stata diversa la realtà.
Saulo Paolo, san Filippo e santo Stefano
Erodoto, in “Storie”, chiamò “Etiopia” le terre a sud dell’Egitto. Fra di esse, la Nubia, una regione del medio Nilo nell’attuale Sudan, dopo il declino del dominio egiziano, divenne sede di una grande civilltà kushita: “La terra dei Faraoni Neri”, con capitale Meroe.
Atti degli Apostoli:
“Filippo incontra un eunuco, funzionario di Candàce, regina di Etiopia, Sovrintendente ai suoi tesori, seduto su un carro… disse allora lo Spirito a Filippo …” (At 8,27/29).
“Kandàce” è il nome ellenizzato citato da Strabone, in realtà “Kadakè“. Nella lingua nubiana dell’epoca era un titolo attribuito soltanto alla “Regina”: tale idioma, in quella regione, si sostituì all’egiziano arcaico nel corso del IV secolo a.C.. La “Kandàce” più famosa e potente di quel periodo, riferita dalle fonti – il cui prestigio è testimoniato anche dalla sua piramide, la più grande fra oltre 200 della necropoli reale sita vicino a Meroe – fu Regina della Nubia e visse nel I secolo a.C.. ma, in realtà … il suo vero nome era Amanishakheto: l’unica sovrana meroita che osò attaccare una Provincia dell’Impero Romano.
Gli storici dell’epoca – a partire dal greco Strabone (Geo. XVII 1,53-54), così come Plinio il Vecchio (Hist. Nat. VI 35,186), sino a Cassio Dione (Hist. Rom. LIV 5) – non conoscendo la lingua, ingenerarono l’equivoco scambiando il titolo della “Regina”, cioè “Kandàce”, per un nome proprio riprendendo l’errore degli scribi che riportarono le cronache della famosa Amanishaketo che sfidò Roma. Cesare Augusto, nelle sue “Res Gestae” (XXVI, 25), descrisse anche la campagna militare da lui ordinata al Prefetto d’Egitto, Gaio Publio Petronio, per risottomettere parte della Nubia al dominio romano nel 23 a.C. poiché, l’anno prima (24 a.C.), la Regina “Kandace” (Amanishakheto), una indomita guerriera, pur mancante di un occhio come riporta Strabone, capeggiò personalmente la rivolta contro i Romani.
Petronio sconfisse i nubiani costringendo la sovrana a pervenire ad un trattato di pace, stipulato a Samo con l’Imperatore stesso, nel 21 d.C., che fissò il confine dell’Impero col Regno meroita. Essa morì il 12 a.C. e, come riferito da Svetonio, i rotoli delle Res Gestae del divino Augusto furono depositati in Senato dopo la sua morte e divennero la fonte degli storici. Gli importanti resti archeologici rinvenuti a Meroe e gli studi dei paleografi che, nel secolo scorso, hanno decifrato il vero nome della regina Amanishakheto, lo confermano. Rimarchiamo, ulteriormente, che l’unica sovrana kushita con la quale ebbero causa i Romani fu Kandace Amanishakheto e non altre. Tale affermazione è comprovata dal fatto che, se gli storici greci e romani del I secolo avessero saputo di altre Regine meroite … tutte di nome “Kandàce”, sarebbero stati i primi a capire che non era un nome proprio ma un titolo regale e, di conseguenza, riferire ai posteri il vero appellativo.
L’episodio narrato in “Atti” è datato, ovviamente, dopo la morte di Cristo, negli anni 30 del I secolo; ne consegue che la scena descritta è una fandonia poiché risale ad oltre cinquant’anni successivi al decesso della famosa Regina “Kandàce”, il cui vero nome, oggi noto, era Amanishakheto e questo, un evangelista testimone oculare degli Atti degli Apostoli per di più ispirato da “un angelo del Signore” (At 8,26) e dallo “Spirito Santo“, avrebbe dovuto saperlo prima di inventarsi un funzionario eunuco, “Sovrintendente” di una regina defunta, e farlo dialogare con Filippo sul profeta Isaia per convertirlo annunziandogli “la buona novella su Gesù” (At 8,30/40). Infatti, lo stesso funzionario avrebbe dovuto conoscere il vero nome della propria regina e riferirlo a Filippo, spiegandogli che i vocaboli “Regina Kandàce” non avevano alcun senso significando “Regina … Regina” e, dal momento che interloquiva col santo senza alcun problema di lingua, gli avrebbe riferito anche il titolo originale: “Kadakè” non “Kandàce”.
Lo scriba cristiano che usò lo pseudonimo “Luca” intese “comprovare” come iniziò la cristianizzazione dell’Etiopia e a tal fine attinse dalle fonti storiche dell’epoca … ma in esse era contenuto l’errore che travisava il titolo delle Regine “Kandàce” per un nome proprio di persona: un errore “prelevato” rivelatosi un “peccato mortale” al punto che basterebbe lui solo a distruggere la credibilità di tutte le testimonianze evangeliche … anche se, come stiamo evidenziando, la storia dimostra che “peccati mortali” simili, ad iniziare dagli scritti di “Luca”, abbondano nei documenti neotestamentari.
Gli studiosi genuflessi, presi in contropiede da questa assurdità riferita da un evangelista “ispirato da Dio”, provano a tergiversare … finendo, inesorabilmente, col debordare dalla razionalità storico archeologica. Infatti, dalla morte di Cristo fino a Nerone, regnarono in Meroe solo Re “maschi“: Pisakar, Amanitaraqide e Nebmaatre. Soltanto dopo, dal 62 all’ 85 d.C., regnò una “Candace” femmina: Amanikhatashan. Particolare peraltro superfluo perché tali nomi non potevano essere conosciuti, né riferiti, dagli storici romani e greci di allora … semplicemente perché i tre Re non intentarono alcuna guerra contro Roma limitandosi a rispettare i trattati, stabiliti dalla loro antenata Amanishaketo con Cesare Augusto, ben sapendo il rischio che avrebbero corso se avessero cercato di riconquistare le fertili regioni limitrofe al corso inferiore del Nilo.
Da questo sproposito si possono scoprire altre imposture derivate contenute nel “sacro testo”. Progredendo con gli studi possiamo dimostrare che gli “Atti degli Apostoli” furono creati da scribi cristiani molto tempo dopo la datazione delle vicende in essi narrate. Gli autori si prefissero di “comprovare”, rafforzandone il mito tramite un ausilio mistificante della storia, l’Avvento di “Gesù Cristo” e degli Apostoli che ne diffusero la dottrina, inventandosi una serie di personaggi di “contorno” con il compito di “testimoniare” gesta miracolose straordinarie.
Questi importanti personaggi comprimari vennero creati artatamente, proprio come gli “Apostoli”, e fatti interagire con uomini realmente vissuti, famosi, rintracciabili nella storiografia dell’epoca, esattamente come le località in cui furono fatti recitare, anch’esse notorie e descritte nei Vangeli. In questo caso, l’errore “Kandace”, fatto dagli storici imperiali i quali non sapevano che nella lingua meroitica era un titolo attribuito alla “Regina”, fu ripreso, inconsapevolmente, dagli scribi falsari cristiani; ma oggi, grazie ad archeologia e paleografia, insieme al dato storico della morte della sovrana guerriera, siamo in grado di scoprire la falsificazione e dimostrare l’invenzione di “Filippo”.
Ma non basta
Leggendo gli “Atti” (At 6,5), questo “Filippo” fu inviato assieme ad altri sei santi “colleghi” con i quali doveva operare prodigi, tutti dotati di poteri soprannaturali; fra questi il primo martire della cristianità: santo Stefano “uomo pieno di fede e di Spirito Santo che … faceva prodigi e miracoli tra il popolo” (At 6,5/8). Ne consegue che, se santo Stefano era assieme ad un inesistente san “Filippo”, è ovvio che anche lui fu inventato, come gli altri cinque. E’ doveroso evidenziare, inoltre, che Filippo fu un apostolo al seguito di Gesù, annunciò al “collega apostolo” Natanaele il Suo “Avvento” (Gv 1,45), presenziò con Cristo nella “ultima cena” e fu testimone oculare della Sua “elevazione” al cielo 40 giorni dopo la “risurrezione” (At 1,1-12). Questa è solo una delle molteplici prove accumulate che dimostrano l’invenzione della “risurrezione” di Gesù; inoltre san Filippo (sic!) partecipò al “miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” (Gv 6,5/7). Viene spontaneo chiedersi: i “beati poveri di spirito” credenti hanno letto i vangeli? …
“L’evangelista Filippo aveva quattro figlie nubili che avevano il dono della profezia” (At 21,9) … ma la Chiesa, consapevole pure Lei dell’inesistenza di questo Filippo riferito in “Atti”, oggi nega che fu uno degli apostoli evangelista, celando le prove agli stessi fedeli; al contrario, noi riferiamo ai Suoi adepti credenti la testimonianza dello storico Vescovo Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica III 31, 2-5) in cui, richiamandosi a lui nei brani sopra citati degli “Atti”, afferma: “Filippo era uno dei dodici apostoli … dopo la sua morte riposa a Hierapolis assieme alla tomba delle sue figlie”. Infatti, se lo scriba di “Atti” intendeva riportare un altro “Filippo”, diverso dall’apostolo appena citato come appartenente ai “dodici” (At 1,13), lo vrebbe chiarito bene per distinguere due protagonisti con lo stesso nome: gli Ebrei usavano il patronimico a questo scopo. Sì, proprio così, a conferma di quanto dimostrato nel primo argomento “Gli Apostoli non sono esistiti” anche tale apostolo, come gli altri fatti passare per ebrei galilei con un impossibile nome greco, viene cancellato definitivamente dalla storia.
Ancora non basta
Il martire Stefano, secondo gli “Atti”, venne fatto lapidare da un Sinedrio convocato da un Sommo Sacerdote senza la presenza, e tanto meno autorizzazione, del Legato imperiale romano (vedi Ant. XX 197/203), l’unico che avrebbe potuto consentirne la soppressione in quanto detentore del “ius gladii” (diritto di uccidere) … pertanto: falsa Candace, falso Filippo, falso Sinedrio, falso Stefano, falso martirio e, superfluo a dirsi, falsi miracoli. Nota. Il corpo del protomartire santo Stefano fu “scoperto” e prelevato da Gerusalemme nel 416 d.C da parte dello storico Presbitero Paulus Orosio, collaboratore di S. Agostino, il geniale Vescovo Padre della Chiesa Cattolica. Un anonimo cadavere riesumato venne fatto a pezzi, distribuititi a loro volta in molte Chiese d’Europa, e tutt’oggi venerati da sprovveduti “beati poveri di spirito”.
E ancora
In questa finta scena, che vede protagonista un finto martire, si introduce anche un altro personaggio inventato, importantissimo per la Verità della Fede Cristiana: san Saulo Paolo; ancora giovane, ai piedi del quale si compie il finto martirio di un finto santo Stefano (At. 7, 58). La sequela delle falsità sin qui evidenziate, confermate dagli studi riportati sopra e quelli successivi, comprovano che san Saulo Paolo non fu una persona realmente esistita ma una menzogna creata per fini ideologici dottrinali.
Proseguiamo. Lo scenario si allarga alla Samaria e …
“Le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo e vedendo i miracoli che egli compiva. Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi emettendo molte grida e molti paralitici e storpi furono risanati” (At 8,6/7)
dopodiché, si introduce un nuovo attore: Simone il Mago.
Questi:“fu battezzato e non si staccava più da Filippo” (At 8,13).
Un san Filippo inventato non può rimanere attaccato ad alcun “mago”: anch’esso fu inventato.
E ancora
La “cantonata” presa con san Filippo dagli scribi cristiani falsari, monastici molto furbi ma poco pratici di storia, è paragonabile ad un’altra riferita nelle “Lettere” di san Saulo Paolo (la II^ ai Corinzi 11,32) e in “Atti” (12,4/7), quando si fa dichiarare all’Apostolo delle Genti:
“A Damasco il Governatore del Re Areta montava la guardia per catturarmi”.
Secondo “Atti” siamo prima del 40 d.C. (anno della sua morte), pertanto questo monarca poteva essere solo il Nabateo Re Areta IV di Petra, la cui figlia sposò Erode Antipa il Tetrarca, il quale la ripudiò per sposare Erodiade. Ma il suocero di Erode Antipa non regnò mai su Damasco che apparteneva alla Provincia romana di Siria: se ciò fosse avvenuto, data l’importanza della notizia, gli storici imperiali lo avrebbero riferito. Fatto che non risulta.
Al contrario, un antenato di questi, Re Areta III, regnò su Damasco oltre un secolo prima che Cristo camminasse sulle acque. Nell’ 85 a.C., Areta III, Re degli arabi Nabatei, conquistò Damasco e vi regnò sino a che, nel 83 a.C., Tigrane II d’Armenia, detto il Grande, conquistò la Siria e Areta III fu costretto ad abbandonare Damasco rifugiandosi a Petra. L’Imperio di Tigrane II non durò a lungo.
L’avanzata inarrestabile della potenza di Roma, impersonata da Pompeo Magno e le sue legioni, causò il declino dei Regni orientali del Mediterraneo e Areta III approfittò di quei conflitti per estendere nuovamente i confini dell’Arabia nabatea sino a Damasco ma, nel 64 a.C., il Proconsole Emilio Scauro (Guerra Giudaica I 159; citato anche nei rotoli di Qumran), Luogotenente di Pompeo, lo costrinse a ritirarsi da Damasco per retrocedere a Filadelfia ed ancora più a sud, sino a Petra, interponendo l’arido deserto fra lui e le legioni romane.
Dopo Areta III regnò sui Nabatei Obodas II, cui subentrò Malichus I, al quale succedette Obodas III, suo figlio e padre, a sua volta, di Areta IV. Quest’ultimo regnò dal 4 a.C. sino al 40 d.C., ma mai su Damasco. E’ oltremodo evidente che san Luca attaccò la sua eschetta storica ad un amo genealogico col numero sbagliato.
Quanto appena riferito è storia documentata e comprovata da archeologia e numismatica; al contrario gli storici genuflessi, con una faccia tosta senza pari, pur di salvaguardare le “Verità” evangeliche, dichiarano che, morto Tiberio nel 37, Gaio Caligola nominò Re di Damasco Areta IV. Questa gente ci vuol far credere che un Re, insediatosi sul trono, il 4 a.C., senza il preventivo “placet” di Augusto; quando nel 36 d.C., dopo aver attaccato e sconfitto Erode Antipa alleato di Roma, osò impadronirsi di territori della Perea, gestiti da Erode ma di proprietà dell’Impero, durante il conflitto tra Roma e i Parti; di conseguenza costretto a fuggire a Petra per evitare la decapitazione da parte di Lucio Vitellio, Luogotenente, sino al 39 d.C., degli Imperatori Tiberio e Caligola (Ant. XVIII 125) … secondo gli esegeti baciapile, avrebbe ricevuto in premio il trono di Damasco? Nella Siria?
Quando fra Damasco di Siria e Petra vi era un immenso territorio sotto dominio romano che comprendeva Traconitide, Batanea, Auranitide, Gaulanitide, Decapoli e Perea … Ma quando! Che lo dimostrino con dati storici e archeologici come risultano per Areta III! Che si faccia avanti un pio docente di storia e letteratura classica e lo dichiari pubblicamente sottoscrivendo con tanto di nome e cognome.
La guerra, pur vittoriosa inizialmente, che Areta IV intentò nel 36 d.C. contro Erode Antipa vassallo di Tiberio, provocò la reazione di Roma che aveva il controllo totale delle vie di comunicazione indispensabili ai ricchi scambi commerciali con l’Oriente; di conseguenza, dopo aver raggiunto il massimo splendore con Areta IV, alla fine del suo regno, Petra iniziò un declino economico irreversibile, al punto che, sotto Traiano la città chiese spontaneamente la sottomissione all’Impero Romano.
Gli storici credenti “ispirati” non arrivano o fingono, in mala fede, di non capire che “san Luca” ha infilzato sull’amo della storia una serie di “eschette” proprio per farli abboccare: eschette che si inghiottono, una dopo l’altra, come fossero ostie consacrate. Questa colossale menzogna religiosa non può giustificare il diritto di cambiare il passato: conoscere la realtà degli eventi accaduti è un patrimonio che appartiene a tutti.
Un falso Gamalièle in un falso Sinedrio; inesistenti Apostoli che fanno miracoli sotto un inesistente “portico di Salomone” (At 5,13-16 ; cfr. Antichità Giudaiche XX 220-222 e studio su apposito argomento); un falso san Saulo Paolo che offende un Sommo Sacerdote del Tempio già dimesso dalla carica, sei anni prima, dal Legato imperiale Ummidio Durmio Quadrato; lo stesso Paolo che si permette di mentire ad un Tribuno sul suo luogo di nascita, e questi, ciononostante, crede alla sua “cittadinanza romana” senza pretendere di vedere l’attestato a comprova, come previsto dalla legge che lui stesso è tenuto a far valere; una falsa “folgorazione” (segue); Apostoli con lingue di fuoco sulla testa che parlano tutti gli idiomi allora conosciuti (At 2,3-4), fanno resuscitare morti, guariscono storpi e intere folle da ogni malattia (At 5,12-16).
Eppure, questi esegeti genuflessi che fanno “apostolato” si vergognano di far conoscere il contenuto di questo “sacro testo” … i preti sanno benissimo che è ridicolo e lo tengono celato: in realtà è Apocrifo. Sanno che anche i “beati poveri di spirito”, oggi, se fossero messi al corrente delle sciocchezze in esso contenute … scapperebbero.
Docenti di fama, ispirati dallo Spirito Santo, discutono in congressi, vengono scritte relazioni, pubblicati libri per “analizzare” gli “Atti degli Apostoli” sotto il profilo storico, letterario, “tradizione giudaica” che incontra la “tradizione ellenica”, “genialità della sintesi paolina”, “studi sulla probabilità che Seneca e san Paolo si siano scritti lettere” (assurdità non comprovabili al limite della demenza), già le hanno intitolate “Caro san Paolo … Caro Seneca”, un enorme pesce diventa san Giovanni fritto in padella (sic!) e martirizzato da Domiziano (in Internet cliccare su “La Satira IV di Giovenale ed il supplizio di san Giovanni a Roma sotto Domiziano”): sembrerebbe impossibile che nei nostri Atenei circolino “analisi storiche” simili.
A volerli leggere tutti è impossibile … e lo sanno; ma quello che conta è far apparire la “Mole” di studi fatti, una bibliografia pressoché infinita: devono impressionare gli sprovveduti. Ma nessun Papa che abbia mai detto in alcuna, delle infinite, “Udienza Generale in Piazza san Pietro”: “cari fratelli e care sorelle, ora vi leggo gli “Atti degli Apostoli”, iniziando dalla prima pagina, bastano un paio d’orette, e avrete diritto alla vita eterna”. No! Lo sanno: gli “Atti degli Apostoli” sono un puerile libello creato per convincere, artatamente, i creduloni dolciotti con eventi storici inventati, come avvenne la diffusione del Cristianesimo e relativa “dottrina della Salvezza”. Gente che nel lontano passato non aveva la possibilità di documentarsi per verificare se quanto riportato nei Vangeli sarebbe potuto avvenire nella realtà, ma oggi … Piazza san Pietro, si svuoterebbe.
III Parte, sintesi:
La “Folgorazione di san Saulo Paolo”
Attraverso il confronto della documentazione neotestamentaria con la storiografia, nello studio precedente abbiamo dimostrato l’inesistenza di san Paolo, san Filippo e santo Stefano: attori di primo piano fatti recitare dagli scribi cristiani nel “sacro testo” di “Atti degli Apostoli”. Ritorniamo su “Paolo di Tarso”, una persona inventata la cui esistenza è giustificata quale movente evolutivo, base di un credo e, di conseguenza, documentata solo da scritture dottrinali risalenti ad epoche successive ai fatti narrati. Di lui, nonostante si sia esibito con miracoli vistosi nelle Province dell’Impero, non esiste alcuna traccia se non quella creata da una “tradizione” posteriore appositamente costruita sul suo culto.
E’ stato immaginato e dipinto in modo così puerile e con errori storici talmente madornali, al punto che nessuno può affermare e tanto meno dimostrare che sia esistito, al contrario, dovere di uno storico è dichiararne l’invenzione contraffatta; pertanto, un uomo che non è esistito non può aver scritto nessuna lettera ed il fatto che ci sia contrasto fra gli stessi filologi credenti su quali “lettere” gli vengano attribuite o meno non fa che confermare quanto appena detto perché le “lettere” furono scritte da altri a suo nome e in tempi diversi a seconda dell’evoluzione della dottrina. Prima di verificare la narrazione della “folgorazione” di Saulo – che secondo quanto scritto nella Bibbia, da feroce e zelante aguzzino, si spostava da una nazione all’altra pur di far strage di Cristiani – è necessario calarsi, brevemente, nel contesto reale dell’epoca per farsi un’idea più precisa di cosa stiamo parlando.
Tacito (Ann. IV 5) riferisce che ad Antiochia risiedeva il Quartiere Generale che controllava tutto l’Oriente, un immenso territorio agli ordini del Governatore di Siria, Luogotenente dell’Imperatore, al comando di quattro legioni più forze ausiliarie con equivalente numero di uomini. Ad esso erano subordinati, giuridicamente e militarmente, anche tutti i Procuratori, i Prefetti, Tetrarchi, Etnarchi e Re vassalli con i rispettivi eserciti. Era una forza di pronto intervento, dislocata in tempo di pace, per un totale superiore a trentamila uomini schierati in difesa di un limes che si dipartiva dal Mar Nero, il Ponto, l’Armenia, l’alto corso dell’Eufrate, sino al Mar Morto comprendendo la Palestina. Roma voleva garantirsi contro la potenziale minaccia dei Parti che avrebbero avuto tutto l’interesse ad affacciarsi sul Mediterraneo, la via di comunicazione più efficiente per i traffici e gli scambi commerciali fra le terre più fertili e ricche del mondo conosciuto da coloro che, allora, scrissero la storia occidentale … ed i Vangeli. E’ questo contesto territoriale, militare e giuridico che ignorò, e fece male, Luca quando si inventò:
“la folgorazione di san Paolo sulla via di Damasco”
“Saulo, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le Sinagoghe di Damasco per essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della dottrina di Cristo” (At 9,1/4);
“Io (Saulo) perseguitai a morte questa nuova dottrina arrestando e gettando in prigione uomini e donne, come può darmi testimonianza il Sommo Sacerdote e tutto il collegio degli anziani (il Sinedrio). Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme” (At 22,4/5).
Questa “testimonianza”, sull’esistenza dei primi “seguaci di Gesù”, con il forzato e ulteriore richiamo al Sommo Sacerdote del Tempio e del Sinedrio (per Luca era una fissazione, ma non poteva fare a meno di inciamparvi), si dimostra un’altra messa in scena sconfessabile dal diritto romano, funzionale a conservare il dominio imperiale tramite un corpo di pubblici ufficiali, strutturato e rigidamente gerarchizzato.
Il Sommo Sacerdote che presiedeva il Sinedrio di Gerusalemme non possedeva il potere per inviare suoi sgherri ad arrestare cittadini damasceni assoggettati alla giurisdizione della Provincia di Siria, governata direttamente da Roma tramite il suo funzionario di stanza ad Antiochia: il Luogotenente dell’Imperatore, subordinato solo a lui. La sua autorità sarebbe stata scavalcata da quella di un Sommo Sacerdote e dal Sinedrio Giudeo, per di più, col potere (esclusivo dei Romani) di fare “strage” di uomini.
Solo un asceta ignorante e al di fuori del contesto reale dell’epoca, poteva inventarsi simili assurdità facendole apparire come una dottrina “dettata da Dio”. Era il Principe dell’Impero Romano, o il Senato, che potevano mettere al bando o dichiarare legittimo un culto; solo l’Imperatore o i funzionari da lui delegati nelle Province avevano il potere di esercitare il “ius gladii”, cioè il diritto, egemone, di sottoporre a supplizio, uccidere o reprimere gli abitanti responsabili di provocare tumulti, compresi quelli di origine religiosa.
Nei territori, sottoposti al dominio romano, governati da Re nominati dall’Imperatore e devoti a Roma, era concesso a questi monarchi il diritto di uccidere in funzione delle proprie leggi patrie, ma nessun capo di qualsiasi culto o setta poteva perseguitare seguaci di altri culti, tanto più se si trattava di religiosi cittadini residenti in altri territori sottoposti a pubblici ufficiali nominati direttamente dall’Imperatore. Il “cursus honorum” degli alti funzionari romani nelle Province imperiali imponeva loro il rispetto di una gerarchia, rigidamente disciplinata, facente capo al Cesare.
In Giudea, all’epoca della “folgorazione di Saulo”, governava un Prefetto incaricato dall’Imperatore e da lui delegato con pieni poteri e diritto di uccidere; solo lui, caso per caso, poteva concedere al Sinedrio di Gerusalemme il permesso di riunirsi per deliberare ed eventualmente, a suo insindacabile giudizio, di giustiziare, nel proprio territorio, uno o più ebrei colpevoli di aver trasgredito la Legge ancestrale. Perché potesse avviarsi tale procedura era indispensabile la presenza di un Prefetto o un Procuratore e la violazione di tale norma comportava la destituzione immediata del Sommo Sacerdote del Tempio che presiedeva il Sinedrio (Ant. XX, 202-203). In Siria (ove sorgeva Damasco), i Presidii militari di Roma erano indispensabili per tenere a bada i Parti e vi risiedevano contingenti con forze più numerose e strategicamente più importanti della guarnigione di stanza a Gerusalemme agli ordini di un Tribuno romano.
Lui soltanto e non un Sommo Sacerdote giudeo, in linea teorica ma con altre e ben più gravi motivazioni, avrebbe potuto richiedere – tramite il suo superiore, Prefetto di Giudea, residente a Cesarea a Mare – l’autorizzazione al Luogotenente dell’Imperatore, Comandante del Quartiere Generale romano di Antiochia, per poter arrestare cittadini di Damasco ed estradarli a Gerusalemme, in Giudea.
San Luca progettò che la “missione” di Paolo, destinata a stroncare il movimento dei seguaci di “Gesù”, si sarebbe trasformata in una “missione” a favore dei “Cristiani” grazie ad un evento straordinario: la “folgorazione”. Fu durante questo viaggio, fasullo sia per la motivazione che per la procedura (entrambe in contrasto alla rigida struttura gerarchica, giuridico-militare, facente capo al Cesare), che l’evangelista si inventò la “conversione di Saulo” (At 9,1/9) e, dopo averlo fatto “folgorare” e accecare da un “Gesù risuscitato e già seduto sulla destra di Dio Padre Onnipotente” (At 2,32), creò il nuovo Apostolo: “san Paolo”. La nuova “Rivelazione” di Dio fu così incarnata in un personaggio inventato di sana pianta da uno o più mistici, ignoranti di leggi, ma sufficientemente furbi da capire che l’illusione della “resurrezione della carne” era un miraggio cui pochi uomini avrebbero saputo resistere.
Emilio Salsi
Per approfondire le vere origini del Cristianesimo consigliamo la lettura del saggio storico di Emilio Salsi – Giovanni il Nazireo, detto “Gesù Cristo”, e i suoi fratelli – che si può ordinare telefonando al 329-9416012; o per e mail: info@vangeliestoria.eu o visitando il sito web vangeliestoria.eu
http://www.altrogiornale.org/paolo-di-tarso-un-apostolo-inventato/
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