mercoledì 2 luglio 2014

'Ergastolo bianco', la vita all'Opg di Aversa

di Giovanni Chianelli
Valentina Quintano, 25 anni, ha trascorso otto mesi all'interno dell'ospedale psichiatrico. Ha realizzato un reportage che racconta la vita degli internati: persone che vivono una tacita reclusione a vita

Otto mesi all'interno dell'Ospedale psichiatrico Giudiziario di Aversa "Filippo Saporito", più di duecento giorni alle prese con i reclusi e con questi spazi inviolabili per ricavarne migliaia di scatti. E' nato così "Ergastolo bianco", un reportage fotografico firmato da Valentina Quintano, dedicato alle condizioni di vita degli internati. 25 anni, napoletana, Valentina si è tuffata in quest'avventura umana prima che artistica nel maggio del 2007. E non è ancora capace di uscirne.

Nel reportage ne sono finiti un centinaio, e potrebbero continuare a crescere: "Non so bene quando il mio lavoro potrà definirsi compiuto", dice Valentina, che ha già chiesto varie proroghe al permesso che le è stato concesso. Non vuole andarsene: è ormai parte dell'Ospedale
. Uno "strano animaletto", come scherzosamente si è battezzata, che sbuca all'improvviso e scatta. Amata e conosciuta da pazienti e personale, prima di tutti dal direttore, Adolfo Ferraro. Quel tipo di medico illuminato e illuminante, sguardo sornione acceso da lampi di intelligenza a fior di pelle, che legge dentro. Ma con grazia e ironia. A Valentina, si vede, si è legato. Forse gli piace avere un occhio "capace", come quello di una ragazzina in tuta e obiettivo. Che conosce ogni angolo del manicomio: ne mostra stanze e percorsi, descrive atmosfere e luci. Vederla fuori da queste mura è straniante: diventa ansiosa mentre dentro è viva e allegra. Perfettamente a suo agio, si capisce che l'O.P.G. è diventato una casa.


"Spesso mi trovo meglio a parlare con i pazienti, senza le mediazioni e le ritualità formali che devo usare con i cosiddetti normali. Senza retorica, la maggior parte di queste persone, persone ripeto, non farebbe più male a nessuno. Ma la società non può più accoglierli. Mi domando cosa sia normale. So che è rischioso restare qui a lungo, eppure sento di gestire la situazione. Quando me ne andrò sentirò nostalgia ma devo evolvermi, umanamente e artisticamente". Le diapositive: in bianco e nero, splendide, ipnotiche, vederle in rassegna fa un effetto-tunnel. Alcune si presentano a dittici inseparabili, cornici organiche che possono parlare solo insieme. Una di queste coppie ritrae delle guardie in una sequenza di vita normale, sorridenti nelle loro faccende. Il manicomio è formato anche da chi ci lavora, parte imprescindibile. Ma i protagonisti restano i reclusi: "L'O.P.G. è una vera e propria galera. Con la non trascurabile differenza che da questo carcere non si sa quando uscire. Formalmente molti potrebbero essere rilasciati, ma siccome non si sa come reinserirli in società restano qui". Torna la spinosa questione dell'applicazione della legge Basaglia. In un'immagine si vede solo una mano, che sbuca al di qua delle sbarre. Chiede qualcosa, qualcosa a cui Valentina è chiamata a dar nome: "La violenza di questo tipo di istituzione totale risiede nell'indeterminatezza delle pene che le persone scontano.

Il sistema ha una struttura ad "imbuto" (facile l'accesso, vicina ad essere impossibile l'uscita) e raccoglie numerosi tipi di persone e reati. Gravi e di lieve entità, accomunandoli nella definizione, tanto generica quanto insignificante, di pericolosità sociale". Il Filippo Saporito ha infatti due categorie di "ospiti": i folli rei, quelli che, già noti al servizio igiene mentale, commettono reati e i rei folli.

Impazziti durante l'esperienza carceraria. Come i due amici-amanti che si abbracciano rotolando durante l'ora d'aria, in una delle sequenze più toccanti del reportage. Un'altra foto mostra un paziente, fanatico religioso,che stringe una croce. Cerca una risposta al delirio dentro e fuori di lui. Valentina ha anche fotografato le prove di uno spettacolo che gli internati hanno interpretato sulla scorta di un progetto del gruppo teatrale Gesualdi/Trono di Progetto Attore in GestAzione, che in gennaio a Galleria Toledo ha messo in scena "Noi aspettiamo (Godot?)". Il capolavoro di Beckett usato come calzante metafora di un'attesa che aspetta se stessa. Valentina è divenuta d'ufficio fotografa di scena, ma dice che "la pièce non è stato il momento essenziale di questo lavoro. Più importante ciò che è successo durante le prove: la scoperta di una possibilità di comunicazione diversa, di un'intimità fisica nuova". Il manicomio ha una sua precisa teatralità anche strutturale. Molti scatti immortalano gli spazi e gli interni: un lager indecifrabile, colori e dimensioni che potrebbero essere usciti da un gioco ottico di Escher, i cui abitanti non sanno come e perché costruirsi in quanto individui. "E non c'è legge che possa mediare, o amnistia che riesca a tirarli fuori". Un Ergastolo bianco, dunque, proprio perché si tratta di una tacita reclusione a vita. O peggio, di questa, almeno, si conosce il termine."Un ergastolo è fine pena mai. Un ergastolo bianco è: fine pena X".

http://napoli.repubblica.it/dettaglio/ergastolo-bianco-la-vita-allopg-di-aversa/1424708

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