Sequestro di persona. È l’accusa, pesantissima, che la procura di Perugia contesta a sette poliziotti e al giudice di pace che si occuparono del caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Muktar Abliazov espulsa dall’Italia il 31 maggio del 2013, messa su un aereo e rispedita in Kazakistan. Un’espulsione che la Cassazione, già a luglio dell’anno scorso, ha definito viziata da «manifesta illegittimità originaria».
Sul registro degli indagati dei pm perugini, competenti ad indagare in quanto è coinvolto un magistrato del distretto di Roma, sono finiti nomi importanti della Polizia: quello dell’ attuale capo del Servizio Centrale operativo, Renato Cortese, allora a capo della squadra mobile di Roma, e del questore di Rimini Maurizio Improta, all’epoca a capo dell’ufficio stranieri della questura della Capitale. Assieme a loro, l’accusa di sequestro è scattata per il giudice di pace che firmò il provvedimento di espulsione, Stefania Lavore, per i funzionari della questura di Roma Armeni e Stampacchia e per gli agenti Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni, tutti e tre in servizio presso l’ufficio stranieri. Nei loro confronti sono ipotizzati anche una serie di altri reati. «Sono assolutamente sereno e ho la massima fiducia nell’operato della magistratura - ha detto Cortese - Sono fiducioso di poter chiarire al più presto la mia posizione».
Nell’informazione di garanzia inviata agli otto, secondo quanto si apprende, si sosterebbe che i poliziotti e il giudice di pace, in concorso con alcuni funzionari dell’ambasciata del Kazakistan di Roma (per i quali non si conosce l’ipotesi di reato), avrebbero sequestrato la Shalabayeva e sua figlia di sei anni nella villa di Casal Palocco, alla periferia sud di Roma e successivamente le avrebbero trasferite all’aeroporto di Ciampino ed imbarcate su un aereo kazako, per rimpatriarle proprio nel paese dove il marito, leader dell’opposizione, era ricercato. Un atto che, sosterebbero i pm, ha esposto a rischio di ritorsione la donna e la piccola.
Quanto esplose il caso, l’affaire Shalabayeva sfiorò il ministro dell’Interno Angelino Alfano e costò il posto all’ allora capo di gabinetto del Viminale, il prefetto Giuseppe Procaccini e il pensionamento anticipato dell’allora capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza Valeri.
Secondo i giudici della Cassazione, ci fu troppa fretta da parte delle autorità italiane: «la contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della donna, dall’irruzione alla partenza, hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa». Alla Shalabayeva non è stata nemmeno fatta la traduzione delle domande e la polizia - ha sottolineato la Cassazione - era a «conoscenza dell’effettiva identità della ricorrente», ossia sapeva che era la moglie di un dissidente ricercato (e attualmente detenuto in Francia). Quanto al passaporto falso della Repubblica Centrafricana - il motivo per cui la donna è stata espulsa - i supremi giudici hanno sostenuto che era valido e non contraffatto, così come validi erano anche i permessi di soggiorno rilasciati dal Regno Unito e dalla Lettonia.
A dicembre 2013, la Shalabayeva è tornata in Italia con la figlioletta Alua di sei anni e ad aprile scorso ha ottenuto l’asilo politico valido cinque anni. «Quello che accadde quella notte fu un rapimento. Voglio chiarezza e giustizia», disse la donna lo scorso maggio, quando presentò il ricorso contro la decisione della procura di Roma di richiedere l’archiviazione per la posizione di tre diplomatici kazaki,
l’ambasciatore a Roma Andrian Yelemessov, il consigliere degli affari politici Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov.
http://www.lastampa.it/2015/11/26/italia/cronache/caso-shalabayeva-il-capo-dello-sco-e-il-questore-di-rimini-indagati-per-sequestro-di-persona-ug0bAxjeVG02Pbmf9Ehp3N/pagina.html
Nessun commento:
Posta un commento