domenica 23 agosto 2015

Auto, case e curriculum: a San Francisco e dintorni adesso si condivide tutto

Il fenomeno della sharing economy esplode con Uber, Airbnb e LinkedIn. Storie di successo dove però è sottile il confine fra flessibilità e precariato

FRANCESCO GUERRERA
SAN FRANCISCO

Per capire lo storico boom di questa città unica, bisogna salire in alto, su una delle colline che dominano l’ondulato tessuto urbano di San Francisco. Ho scelto Twin Peaks, e non solo perché il nome è caro agli appassionati di David Lynch. I due picchi gemelli sono il punto più alto di una città al settimo cielo. Da qui si vede tutto: case a perdita d’occhio, macchine in fila su autostrade che non le possono contenere più, la baia piena di navi e, se la nebbia lo permette, il Golden Gate Bridge, il simbolo di San Fran, come la chiamano gli americani. Da qui, si possono quasi toccare la crescita economica, lo sviluppo di un’industria tecnologica senza pari al mondo e la bolla di benessere di questo pezzo di California che sta eclissando New York e Los Angeles, Londra e Milano. L’ultimo encomio è venuto dalla rivista «Bon Appetit», che ha dichiarato San Francisco la città con i migliori ristoranti d’America. Lì sotto, tra i tetti di legno, i grattacieli di vetro e le luci delle automobili, è nata e cresciuta la «sharing economy», l’economia della condivisione di case, macchine e qualsiasi altra cosa che una volta si comprava «per sempre» e ora si prende in affitto sull’Internet da sconosciuti. Sta trasformando l’America e conquistando il resto del mondo, creando grandi ricchezze ma anche nuovi squilibri, risolvendo problemi annosi e ponendo nuovi quesiti sociali.

Un’idea semplice
L’idea della sharing economy è semplice: utilizzare al massimo risorse che altrimenti rimarrebbero inattive. Se l’americano medio prende la macchina solo l’8% del tempo, perché non farsi pagare per trasportare altri invece di lasciarla parcheggiata? Se hai una stanza libera, perché non la affitti? Se il trapano non lo usi, mettilo su un sito e magari qualcuno ti contatterà. E così via, con opere d’arte, tagliaerba, frullatori, libri. San Francisco è la capitale di una rivoluzione che potrebbe cambiare per sempre il mondo del lavoro, mettendo fine a uno dei cardini fondamentali dell’economia occidentale degli ultimi secoli: il posto fisso, a tempo pieno, per una sola azienda. C’è chi dice che la «sharing economy» valga 110 miliardi di dollari ma sembrano stime troppo prudenti: se Uber, la piattaforma online per i taxi facilita 2 milioni di corse al giorno, se Airbnb, il sito che affitta camere e appartamenti, dice di avere già avuto più di 40 milioni di «ospiti» e LinkedIn, dove i professionisti vanno a trovare lavoro, ha 380 milioni di membri, allora hanno ragione i cervelloni del McKinsey Global Institute quando predicono che questa nuova era di Internet potrebbe creare 72 milioni di nuovi posti di lavoro e aggiungere più del 2 per cento al Pil mondiale nei prossimi dieci anni.

Nel frattempo, questo nuovo settore economico, reso possibile dalla tecnologia, la globalizzazione e il coraggio sfacciato di un po’ d’imprenditori, aiuta Alex. Alex è il padrone di casa della stanza che ho affittato su Airbnb per il mio soggiorno. Nato in Germania ma negli Usa da più di vent’anni, Alex è il prototipo del lavoratore della sharing economy: affitta parte della sua casa a Twin Peaks su Airbnb e poi guida per Uber, Lyft e SideCar – le tre nuove potenze nei taxi via Internet. E ha anche un lavoro a tempo pieno come ingegnere di software all’aeroporto di San Francisco.
«Ho incominciato a guidare al weekend perché amo alzarmi presto la mattina mentre alla mia famiglia piace dormire», mi dice mentre ceniamo con conchiglie al pomodoro e la moglie e il figlio annuiscono. «Mi diverte andare in macchina, conoscere gente nuova e fare un pochino di soldi».

Liberi e flessibili
La flessibilità. È questo il refrain di quasi tutta la manovalanza dell’economia della condivisione. I guidatori di Uber, i padroni di Airbnb, gli chef che ti vengono a casa quando non hai voglia di cucinare, dicono tutti che è bello non dover timbrare il cartellino, staccare quando hanno guadagnato abbastanza e fare più di un lavoro. Alex guida quando la famiglia dorme. Faith, una ragazza del Kenya che mi ha scarrozzato per Denver in un taxi di Uber, lo fa solo al weekend per pagarsi l’università, John, un signore di mezza età che mi ha portato dalla cima di Twin Peaks fino alla pianura del centro di San Fran, lavora per l’ufficio delle tasse di giorno e guida il tassì di sera.

«Non hanno un capo, decidono il loro programma. Uber si adatta alle loro vite e non viceversa. È una cosa veramente incredibile». A dirmelo è David Plouffe, che di cose incredibili se ne intende. Plouffe è stato lo stratega della campagna che vide un giovane senatore dell’Illinois chiamato Barack Hussein Obama diventare il primo presidente di colore degli Usa. Plouffe ora ha messo via la giacca e cravatta che indossava alla Casa Bianca e sfoggia un maglioncino di lana grigia più in armonia con il quartier generale di Uber, tutto legno, vetro e ragazzi in ciabatte. Come «consigliere-capo» di Uber, guida un altro tipo di campagna: convincere i governi, le organizzazioni dei tassisti e i consumatori che Uber fa bene all’economia
. «Non siamo una cosetta che aiuta i venticinquenni trendy ad andare al bar», dice. «Noi siamo parte dell’ecosistema del trasporto» dice, sostenendo che Uber potrà aiutare governi e città a far fronte all’ondata di urbanizzazione mondiale prevista per i prossimi decenni.

Gli investitori sono d’accordo. In maggio, Uber ha raccolto nuovi soldi e raggiunto una valutazione di circa 50 miliardi di dollari, più della stragrande maggioranza di tutte le società quotate sul mercato americano. Dopo solo sei anni di vita. Nessuno sa di preciso quanti soldi faccia perché non è in Borsa, ma si sussurra che Uber abbia un fatturato di più di 10 miliardi e che si prenda il 20% del prezzo di ogni corsa. Quest’azienda che non esisteva nemmeno quando l’economia americana crollò sotto il peso della crisi finanziaria, trascinando il mondo sul baratro della depressione, è diventata il simbolo della rinascita degli Usa, l’icona portatile di un settore «giovane» e «diverso», senza capi, orari e tabellini.

I nuovi precari 2.0
Nel bene e nel male. C’è chi si preoccupa che la sharing economy stia creando sperequazioni sociali che potrebbero allargare il divario tra i benestanti e chi serve i benestanti. Guy Standing, professore di Studi dello Sviluppo all’Università di Londra ha battezzato questa nuova classe di lavoratori «il precariato», una versione del proletariato per l’era dell’ iPhone. «È gente che deve abituarsi a una vita con guadagni instabili e derivati tutti dai salari, non dai contributi sociali o dalla pensione», mi ha detto. Per Standing - i cui due libri: «Precari: La nuova classe esplosiva» e «Diventare cittadini: Un manifesto del precariato» hanno fatto scalpore. – società come Uber e Airbnb sono versioni moderne dei loschi intermediari di un tempo. «Mi fanno venire in mente “Fronte del Porto” con Marlon Brando. Tutti i lavoratori si accalcano in una stanza e questi decidono chi lavora oggi. È una corsa al ribasso molto pericolosa».

I politici e il sistema giuridico stanno prendendo nota. Di recente, Hillary Clinton si è detta preoccupata dell’effetto della sharing economy sulle classi medie. Secondo lei, questa esplosione di nuove tipologie dell’occupazione sta ridefinendo «cosa significhi oggi avere un buon lavoro». Allo stesso tempo, in California le corti hanno deciso che Uber deve trattare i guidatori come dipendenti e non lavoratori autonomi. È un verdetto che, se confermato in appello, potrebbe costringere la società a pagare contributi e pensioni a centinaia di migliaia di persone. E molti governi, dalla Sud Corea alla Francia, e persino la liberale New York, hanno accusato Uber di aver infranto varie leggi sul trasporto.
Plouffe difende la decisione di considerare i guidatori come battitori liberi. «I critici non capiscono», mi dice con tono pacato ma con la fiducia in se stesso tipica sia di Uber che dell’amministrazione Obama. «In America, metà dei nostri guidatori guida meno di dieci ore la settimana», come Alex. «Chi ci attacca pensa a un esercito di lavoratori a tempo pieno».

Sono reazioni giustificate e comprensibili nei confronti di un movimento socio-economico che è completamente diverso dal passato e sta diventando molto importante nel presente dell’economia mondiale. Circa 53 milioni di americani, uno su sei, fa del lavoro in proprio e, stando ai sondaggi, la nuova generazione dei «millennial» ventenni e trentenni preferisce di gran lunga questo tipo di occupazione a quelle dei genitori e nonni.
Grattacielo o Babele
La spinta dei lavoratori, la domanda dei consumatori e il potere della tecnologia rende la marcia della sharing economy inesorabile. Non la si potrà sradicare, solo regolare, dirigere, plasmare. Siamo al pian terreno di un edificio tecnologico che potrebbe diventare o un grattacielo o una torre di Babele. Per tentare di indovinare che forma prenderà, sono sceso a valle. A Silicon Valley, per essere precisi, nel quartier generale di LinkedIn, il network sociale per professionisti. Questo Facebook per chi lavora è in un posto emblematico: a Mountain View, di fronte alla casa natale di Google. È qui, nel centro abbastanza modesto della tecnologia moderna, che chiedo ad Allen Blue di spiegarmi come funzionerà il mercato del lavoro del futuro.

Blue è uno degli architetti della Silicon Valley di oggi. Un ex professore di teatro a Stanford con un bel sorriso e il ciuffo biondo che è uno dei fondatori di LinkedIn e il guru dei suoi prodotti. Voglio che guardi nella sfera di cristallo dell’occupazione perché LinkedIn ha iniziato un progetto molto ambizioso: creare una mappa mondiale del mondo del lavoro. Utilizzando le informazioni messe sul sito dai suoi membri – lavoratori ma anche società, governi e università – il team di Allen Blue vuole offrire a ogni partecipante nella forza lavoro la possibilità di sapere esattamente dove i suoi talenti sono richiesti, che capacità deve avere per fare carriera e di che cosa hanno bisogno le aziende. Sembra fantascienza ma il «grafico economico», come lo chiamano a LinkedIn, è già stato applicato da città come New York, che ha scoperto di avere una carenza di specialisti della tecnologia mobile. Il sindaco Bill de Blasio ha immediatamente chiesto alle università pubbliche di aggiungere corsi per far fronte a questa carenza.

«La nostra missione è far sì che gli individui abbiano successo. Se riusciamo a dare informazioni precise a lavoratori e datori di lavoro, andranno più veloci e più lontani» mi dice Blue. «La tecnologia oggi ci permette di fare questo salto di qualità. È come essere catapultati dal terzo mondo al primo mondo nel corso di una carriera». Sono parole forti e speranzose. Mi chiedo, però, se il grafico economico possa essere utile non solo ai giovani millennial che giocano a ping pong nei begli uffici di LinkedIn o ai professionisti in carriera ma anche al precariato e a chi rischia di slittare verso la base della piramide economica.
Allen Blue è ottimista. Promette che la nuova sfida di LinkedIn sarà diventare un centro d’informazione ed educazione per dare alle classi operaie e di manovalanza quello che finora è stato riservato ai colletti bianchi. Ma non credo sarà facile, soprattutto in zone dove non c’è una crescita economica paragonabile a quella di San Francisco o New York.

Enrico Moretti, professore di Economia alla prestigiosa università di Berkeley e autore de «La nuova geografia del lavoro», fa una distinzione importante: le condizioni economiche della zona contano molto sul successo dell’individuo, qualsiasi tipo di lavoro faccia. «Quello che uno chiama lavoro “precario” l’altro lo chiama flessibile: in parte in proprio, in parte come dipendenti», mi dice. «Sono lavori che dipendono moltissimo dal livello di ricchezza che esiste in un’area e questo è un fatto non specifico alla sharing economy, c’è sempre stato. La flessibilità è accentuata perché le tecnologie lo permettono».

È un fatto che non dà molte speranze a zone depresse come il Sud degli Stati Uniti, il Meridione italiano, Paesi come la Grecia. Ma in California per ora l’equazione funziona: la tecnologia sta conferendo ricchezza a tutta la zona, spronando la sharing economy a creare nuovi lavori flessibili e/o precari. Il viaggio di ritorno da Mountain View a San Francisco ne è esempio perfetto: un’ora e mezzo per fare meno di 40 miglia. Macchine su macchine di gente che fa la spola tra la valle della tecnologia e le colline con i ristoranti migliori d’America. Siamo tutti imbottigliati nel boom, precari e stabili, imprenditori con la Porsche, ingegneri con la Prius e mamme con la Subaru, aspettando il nostro turno per godersi i frutti della crescita economica.


Ottava tappa di in una serie di articoli sulla ripresa dell’economia americana. Seguite il viaggio di Francesco Guerrera su www.lastampa.it/gousago e su Twitter: @guerreraf72 e Instagram: emailfrancescoguerrera.

http://www.lastampa.it/2015/08/23/medialab/webdoc/lungo-la-strada-della-ripresa/articoli/auto-case-e-curriculum-sulla-frontiera-californiana-adesso-si-condivide-tutto-URswjFekKYTryxPNF1IqfI/pagina.html

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